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LIVORNO E IL GIOCO DEL LOTTO

Antonio Piemontese, 1784 -  Collezione Miramare, Trieste

Il gioco del Lotto nasce a Livorno, così come ci viene testimoniato dal Piombanti, nella sua
Guida storica ed artistica della città e dei contorni di Livorno a pag. 239:
Il governo introdusse in Toscana il giuoco del Lotto, che prima chiamavasi giuoco di Genova, nel 1739. Dieci anni dopo se ne faceva in Livorno la  prima estrazione, sotto le logge di questa allora dogana. 
Nel 1784 vi fu posto perciò un palco nuovo dipinto dal nostro Giuseppe Terreni. Appresso l'uffizio dell'estrazione si trasportò nella vicina casetta, accanto all'ingresso dell'ospedale, in cui stette fino a tutto il 1863. Presentemente questo immoralissimo giuoco, contro il quale tanto s'è detto e scritto nel passato, lo hanno reso anche più generale diminuendo il prezzo dei biglietti.


Con in numero 2 è indicato "l'ufficio del giuoco del lotto"

In due numeri della Canaviglia, Anno V n. 2 e Anno VI n. 2 del 1981, nelle memorie di Ermanno Canessa, vengono riportati dei curiosi aneddoti sul gioco del lotto che vi riporto.
Meritano attenta ed ironica lettura.
 
"Le storie che oggi ti racconto hanno in comune una certa atmosfera di soprannaturale, non solo per la singolarità della materia trattata, ma anche per quella velatura di mistero che il trascorrere degli anni ricopre, scoprendoli, avvenimenti ai quali io non assistetti, ma che mi furono, già tramandati, da mia madre e da mia nonna. Ed esse, nel ripeterli, vi mettevano una tale convinzione e gravità per cui ancora oggi ne risento la soggezione e suggestione; così lascio a te e ai lettori la responsabilità di crederci o meno.
Io non voglio né ora né in seguito perorare la causa dei semplici, e nemmeno quella degli scettici; voglio solo porgerti materia di pacato godimento e, perché no, di ripensamento su squarci di vita trascorsa dove unico indiscutibile e precipuo protagonista era il quartiere di Venezia che esprimeva nella propria gente il carattere tipico del livornese, spesso in balia delle due opposte sensazioni: da una parte la stupefatta accondiscendenza a recepire ciò che ha dei prodigioso, dall'altra l'incredula diffidenza verso lo stesso.
Del resto questa è una caratteristica della gente di mare che, attingendo dall'elemento naturale su cui vive tanto la concretezza dell'essere quanto l'insondabilità del divenire, confonde nel cuore e nella mente i confini della realtà e della fantasia.
Intendiamoci, la vicenda che ora ti racconto è veramente accaduta; di discutibile è solo la soluzione che si può dare al fatto: fu veramente miracolo del Signore o pura coincidenza?
E perciò tutte le sere, nella chiesa dei Domenicani, si inginocchiava davanti all'altare del Gesù della Pietà (noto come «Gesù della Canna») e pregava tutta accorata il Signore e la Madonna affinché le suggerissero tre numeri per un terno vincente:
- Gesù mio, fammi la grazia... mi sposa la figliola... fammi la grazia di vincere un «ternuccio per mettere su un po' di corredo a questa figliola che non ha mai avuto nulla dalla vita... non ha mai chiesto nulla; ora ha trovato un uomo che la sposa... fammi la grazia...
Il sacrestano della Chiesa dei Domenicani, un Casella, cugino di mia nonna, chiamato il Ricciolo, lavorava tutto il giorno nella chiesa e ne usciva la sera per andare a dormire in una casa sul Pontino.
Prima di procedere alla chiusura del portale, il Ricciolo dava un'occhiata nei confessionali e fra le panche per invitare gli eventuali ritardatari ad uscire e si imbatteva immancabilmente nella donnetta che si attardava a pregare il Signore per quei tre numeri benedetti. Allora, con aria insofferente:
- Sposina si chiude... abbiate pazienza, ma è l'ora di uscire!
E tutte le sere era la stessa storia finché il Ricciolo, stanco di ritardare sistematicamente il suo rientro a casa per colpa della donnetta, se ne lamento con il curato, Padre Simone. E questo buon Padre, visto che non era opportuno scacciare dalla chiesa una religiosa in preghiera, disse al sacrestano tra il burbero e il faceto:
- Di la', in archivio c'è la tombola dei ragazzi del ricreatorio; prendi tre ghiandine a caso, incartale in un foglietto e gettale da dietro l'altare vicino alla panca dov'è inginocchiata la donna e vediamo se questi tre numeri la tengono calma per qualche giorno.
Ma con questo stratagemma il curato, che era un vecchio e saggio Domenicano, intendeva calmare soprattutto l'impazienza del Ricciolo.
Il sacrestano eseguì alla lettera il suggerimento; e la donna, vedendo cadere all'improvviso l'involtino ai suoi piedi pensò subito ad un intervento del Signore e tutta tremante lo andava scartando: 
- Gesù mio, Gesù mio!, sono tre numeri... sono i tre numeri!!!
Li giocò la sera stessa e uscirono tutti e tre: 15, 60 e 84, che da allora divennero un terno popolare, anche perché dei tre numeri, due avevano ed hanno tuttora un significato cabalistico aderente al fatto: 60 è la Madonna, 84 è la Chiesa. E il terno si chiamò il terno dei Domenicani.
La gente di Venezia non dubitò mai che non si trattasse di un miracolo e Padre Simone ammoniva se stesso e il sacrestano:
- Vedi Ricciolo, credevamo di fare una birichinata, ma con Dio non si scherza!
Il Ricciolo, per la verità, non la prese tanto bene, un po' per aver involontariamente avvantaggiato la donna che l'aveva tanto travagliato e un po' per lo scorno di non aver giocato lui stesso quel terno vincente. E così rivolle indietro le «sue» ghiandine.
La donna intanto, felice e riconoscente per aver finalmente potuto preparare il corredo alla figliola, continuò ad inginocchiarsi sulla solita panca per ringraziare il Gesù della Pietà con preghiere e candele, portando anche di tanto in tanto l'olio per mantenere acceso il lumino davanti alla statua. E imparò ad uscire un po' prima della chiusura della chiesa.

(...)
Noi ci siamo soffermati su questa figuretta patetica perché la sua vincita, considerata miracolosa dal popolo, suscitò un grande scalpore.
Ma fattarelli come questi, legati al gioco del lotto, soltanto a scavare un po' a fondo nella memoria, si contano a decine, e mi piace, oggi, raccontarti i più divertenti. 
Zaira
I «veneziani» erano giocatori del lotto, come e più dei napoletani, come, cioè, tutta la povera gente che è costretta a cercare sempre nella vita di ruscolare qualche soldarello in più per integrare il magro guadagno di un modesto lavoro.
Il Lotto è il gioco del «popolo», perché costa poco in soldi e in bravura, alimenta la speranza, e la delusione della sconfitta dura un sabato e una domenica; il lunedì con l'apertura del botteghino, si ricomincia a pensare ad una nuova vincita. Inoltre presenta una copertura quasi magica, tale da soddisfare quel tanto di credenza e di superstizione con le quali il popolino sfoga le proprie aspettative o paure.
E se la donnetta di Via Buia cercava i numeri fortunati tra le panche dei Domenicani, davanti all'altare di Gesù della Pietà, Zaira ci aveva in casa un altarino personale con un bel quadro della Madonna di Pompei, alla quale il venerdì rivolgeva le più accorate preghiere per due o tre numeri che dovevano sostituire il mancato guadagno del marito Presentino, che spesso ritornava a casa da Marittima a mani vuote, perché non era arrivata merce da sbarcare: e quello era il suo lavoro.
Zaira era stata offesa dalla natura nel fisico che aveva tutto sciancato, ma favorita nello spirito che aveva fiducioso e paziente, per cui tutti i venerdì che Dio metteva in terra accendeva un lumino davanti alla Madonna di Pompei ed in confidenza la pregava:
- «Pompea, ci ho la figliola senza scarpe e il marito senza lavoro; mi basterebbe un «ambino» per risolvere la situazione.....
E mandava a giocare i numeri che la fantasia le dettava nel momento e, devo dire, qualche ambo lo rimediava; ma quando perdeva correva e spegnere il cero davanti al quadro:
 - «Se 'un mi fai la grazia, il lumino 'un te lo sbafi più...»
Ma il venerdì seguente la cera di una candela era di nuovo li, davanti all'immagine sacra, a struggersi come le preghiere della povera donna; e questo durò fino a quando Zaira non restò sotto le macerie di uno dei primi bombardamenti del 1943.
E questo piccolo mercimonio che le donne di Venezia intrattenevano con Dio, la Madonna e tutti i Santi del Cielo, non deve scandalizzare né te, né i lettori, perché c'era tanta ingenuità e affetto in quel «mercatino» da raggiungere la soavità delle più belle preghiere.

Сессо

Il Lotto si giocava nel botteghino di Cecco, in Via della Banca, dove ora c'è la Questura e prima c'era l'Ospedale di S. Giovanni. 
L'antico quartiere di San Giovanni e il suo Ospedale
(Vi invito a leggere due interessanti articoli sul "Risanamento" della città di Livorno: Il risanamento della città di LivornoL'antico Ospedale di Sant'Antonio e
Era una botteguccia con un bancone e su quello la boccetta d'inchiostro con una bella penna di tacchino, che Cecco si «tagliava» da se, e che scrocchiava sulla carta, un Libro dei Sogni, ormai tutto consunto e logoro e una ciotola di spolverino per asciugare la scrittura. Siccome lo spolverino altro non era che semplice rena, te ne rimaneva sempre un po' nella tasca dove riponevi i biglietti del Lotto.
Questi biglietti erano di diverso taglio e quelli da pochi centesimi erano i primi a sparire, tanto è vero che il lunedì erano già esauriti. Vedremo il perché.
Cecco era un brav'uomo, perché pagava subito le vincite, del resto sempre di poche lire, senza far aspettare il mandato dell'Intendenza e sciupare con la burocrazia l'aspettativa festosa dei fortunati.
Per il suo lavoro, Cecco veniva pagato dallo Stato con una percentuale sulle giocate e in più riceveva la mancia dai vincitori riconoscenti, ma l'uno e l'altro costituivano sempre un modesto introito, che Cecco rimase sempre povero.
Aveva nel bancone una cantera apposta per quei biglietti che venivano prenotati e poi ritirati all'ultimo giorno, cioè proprio il sabato pomeriggio prima delle due.La sera del sabato usciva in edicola la "Gazzetta" con i risultati delle estrazioni, ma i più, invece di comprare il giornale, preferivano recarsi da Cecco, che anzi tempo si era informato presso la Prefettura, in Piazza Grande dei numeri usciti. Li trascriveva in grassetto su un foglio che incollava su una tavole di legno posta fuori della sua bottega "ad usum populi".
Piazza Anita Garibaldi

I facchini di Henderson
I numeri da giocare, i Veneziani, li attingevano da ogni fatto o cosa che potesse eccitare la loro mente: un incidente - meglio se mortale - o un suicidio riempivano i botteghini; un matrimonio fra aristocratici livornesi (come quello tra De Larderel e Aliosi nella chiesa del Luogo Pio) affollava le chiese nel giorno di festa e il botteghino di Cecco il giorno feriale: i numeri che in quell'occasione andavano a ruba erano il 63, gli sposi, 84, la chiesa e 30 il popolo che guarda gli sposi.
Figuriamoci quando cominciarono a circolare le prime auto; i botteghini pullulavano di gente che giocava i numeri delle targhe. Così come quando arrivavano i treni a marittima, le donne mandavano le bimbe a copiare i numeri dei vagoni.
C'era chi i numeri li rilevava in occasione di lavoro, come i facchini di Handerson, una ditta inglese di Via Borra che importava carbone.
Un giorno arrivò in ditta una cassa da Firenze con stampigliato il nome della città, accompagnato da quattro numeri; questi piacquero tanto a uno degli scaricatori del posto che convinse anche i suoi compagni di lavoro a giocarli.
Questo signore ha la sua bella lapidina sul Ponte di marmo, o sul ponte di San Giovanni Nepomuceno, che ricorda il suo nome al posto della mia memoria. E lo ricorda non per il fatto che vado raccontando, ma perché allora questi due ponti popolari raccoglievano, dopo morti, tutti i nomi dei barrociai, facchini di magazzino, garzoni delle cantine e di tutti quelli che avevano vissuto lavorando e faticando nei paraggi.
Chiesa di Sant'Antonio

I facchini di Henderson avevano i numeri e tanta fiducia in essi, ma mancavano dei soldi per giocarli; allora concertarono di farsi prestare una lira dal contabile di magazzino, ma ne ricevettero un rifiuto:  "Figuriamoci, con tutto il lavoro che c'è da sbrigare in magazzino, loro pensano al Lotto..."
Per niente scoraggiati si presentarono alla Coscetti, la viania di Via Buia, dove erano soliti consumare un po' di colazione e farsi un bicchiere di vino.
Siccome tra poveracci ci si intende meglio, le Coscetti prestò loro la lira. I quattro numeri furono giocati al botteghino di Cecco e sortirono tutti e quattro pagando ben 6.000 lire!
La notizia scoppiò in Venezia e fece il giro della città e chi andò quella sera dalla Coscetti ebbe a cenare gratis, mentre il contabile della Henderson, che non aveva avuto fede, così come per il ricciolo, ci fu solo lo scorno. Quella volta, per una somma simile, si dovette scomodare la Tesoreria dello Stato.
I sogni
Di tutti gli avvenimenti ordinari e straordinari da cui i Veneziani attingevano i numeri, i più frequenti erano quelli che si verificavano nei sogni, che sono stati considerati fin dell'antichità fonti di rivelazioni profetiche.
Questa avventura notturna creava nuovi personaggi: le interpretatrici dei sogni, come Rosa di Gaspero, la cabalista che aveva racchiuso nel cervello la chiave di ogni sogno e Zese, che la gente chiamava Fortunini, moglie di Menotti sempre ubriaco.
Queste due donne tenevano sempre in tasca un lapis e dei fogliettini, e ascoltavano con pazienza chiunque le interpellasse:
- "Mi son sognata mi ma' che mi diceva... il mi' bimbo che faceva... er mi' marito che mi raccontava..."
Loro elaboravano l'avvenimento e lo traducevano in numeri che scrivevano sui bigliettini e li consegnavano al sognatore o sognatrice, sperando anch'esse nella vincita, perché se i numeri uscivano, venivano sempre ricompensate... magari con una mezza lira.
Ma se i parenti morti facevano la grazie di apparire nei sogni e dettavano loro stessi i numeri, allora si correva direttamente al botteghino senza la mediazione di Rosa e della Fortunini. Ma questo delle cabaliste non era il solo commercio che il Lotto alimentava: c'era quello altrettanto florido degli accaparratori di biglietti, come la Zoccolini - così soprannominata perché portava solo zoccoli - la quale si affrettava a comprare 10 o 12 biglietti da un citto (5 centesimi), gli storni, che poi rivendeva ai ritardatari per qualche centesimo in più.

Chi non si affidava alle cabaliste, o «indovine», sfogliava il Libro dei Sogni - ora chiamato «La Smorfia» - presso il botteghino di Cecco, o se i sogni richiedevano un'elaborazione più complicata poteva consultarlo in casa propria dopo averlo comprato da Meucci in Via Grande, o dal Giusti al Casone, o dal Fabbreschi in Via della Madonna.

Il libro seguiva un certo ordine: prima numerava i nomi degli uomini, poi quelli delle donne, delle città, delle nazioni, dei mestieri e così via.

Una cosa è certa: in Venezia questo libro era il più compulsato, più amato e più odiato.

Allora il Lotto si giocava su otto ruote: Bari, Cagliari, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Torino e Venezia. Mancavano Genova e Roma che sono venute dopo.

Un giorno, Mario del Corona, simpaticissimo barzellettiere del quartiere, andò al botteghino a giocare tre numeri: – «Su tutte le ròte? — gli chiese Cecco. — «Mah, mettimi un ventino anche sulle stanghe...!». .
E così se la fortuna spesso si dimenticava dei Veneziani, essi si vendicavano burlandosene.
Le Case Pie - Viale Caprera

E così fece Ciaciocco.
La burla di Cacciocco

Cacciocco, padre di due figli ormai sposati, era stato da giovane un ormeggiatore in gamba. A quei tempi non era come oggi che ogni lavoratore è inquadrato in una categoria ed entro questa è tutelato da un sindacato. Allora chi intendeva lavorare doveva presentarsi nel luogo dove c'era lavoro da sbrigare e dimostrare di essere svelto e capace così si guadagnava la giornata.
Caciocco, nel periodo in cui nel nostro porto approdavano più bastimenti a vela che a vapore, era veramente bravo nel suo mestiere: lesto ad agganciare ed incappellare il cavo nella bitta per ormeggiare il bastimento, evitando di essere trascinato in mare dal cavo medesimo e costringere i marinai a ripetere l'operazione, e cioè tirare a bordo il palloncino con la sagola che doveva, da terra, essere subito presa per assicurare il cavo a cui era legata.
Col passare degli anni, Ciaciocco aveva perso agilità e forza per cui difficilmente trovava qualcuno disposto ad impiegarlo; di tanto in tanto gli ormeggiatori gli regalavano una o due lire.
Rimasto vedovo andò ad abitare con il figlio, ma la nuora lo prese a malvolere e continuava a lamentarsi col marito:
- «Il tu babbo tossisce..., sputa per terra...., 'un si lava...».
E via di seguito, finché il pover'uomo, sentendosi di peso, se ne andò al Ricovero.
Là gli consegnarono la divisa dell'ospizio, che a quei tempi era color tabacco, e siccome era autosufficiente, poteva uscire e rientrare quando voleva. Le sue passeggiate lo portavano spesso a casa del figlio, o della figlia, finché — accortosi che anche queste visite non erano gradite — non ci andò più, né i parenti lo cercarono.
Di questa noncuranza Ciaciocco si lamentava con un ricoverato, certo Simonti, un ex-portuale, burlone e spregiudicato:
- «Deh, guarda bellina la mi' gente come m'ha abbandonato...!».
E quello un giorno lo consolo: - «Sai 'osa, gliela faccio io una burletta alla tu' gente; te agguanta la maglia e stai allo scherzo».
Poi andò al mercato dove sapeva di incontrare la nuora di Ciaciocco e, a lei che si informava della salute del suocero, rispose:
- «Sta proprio bene Ciaciocco...., anzi meglio di tutti noi, specialmente ora che ci ha i quattrini».
- «Quattrini?, o chi glieli ha dati?».
-  «Ha vinto al Lotto seimila lire....».
- «Seimila lire?, ma davvero? e 'un ci ha fatto sapere nulla». - «О a chi lo doveva dire se 'un ci va mai nessuno a trovarlo? E' sempre solo; ogni tanto esce dall'ospizio e va a comprarsi una porzione in S. Andrea o una boccia di vino....».
La donna tornò subito a casa ad aspettare il marito che lavorava al porto ed appena lo vide gli raccontò tutta la faccenda.
Naturalmente il giorno dopo i due coniugi andarono subito a far visita al vecchio e gli portarono un bel po' di companatico e davanti a lui si profusero in scuse per la lunga assenza:
- «Cosa vòle, siamo sempre tanto occupati: con il porto, i bimbi sempre piccini, il far la spesa, cucinare, le faccende.... >>
- "Un fa niente, 'un fa niente - rispose bonariamente il vecchio - tanto c'è tempo a morì; piuttosto 'un portatemi da mangiare... via via mi 'ompro una porzione... da quando ho vinto quelle quattro palanche...".
- «Ah siii? - <meravigliò» la donna, fingendo di non aver parlato col Simonti.
- «Un giorno è venuto qui uno a vendere gli storni e io comprai un biglietto con quattro numeri. O vai che sortirono tutti e quattro e vinsi seimila lire. Allora ho aperto un libretto in banca, dietro consiglio e aiuto del ragioniere del Ricovero. Questi soldi son tutta roba vostra quando sarò morto!».
Quindi fu avvisata anche l'altra figlia e tutti i momenti gli «affezionati» parenti erano al Ricovero e ripetevano a Ciaciocco, tutti premurosi:
- «О non stia ad ammattire a comprarsi da mangiare; gli si porta noi tutto quello che preferisce: il pollo, il conigliolo, la frittata di zucchine».
- «'Un voglio proprio nulla. Voglio solo che, quando sarò morto, ritiriate quelle du' palanche che ho versato: prima, però, mi comprate una bella cassa, un bel posto ai colombai del Camposanto e ordinate un bel trasporto all'Assistenza; poi tutto quello che avanza, e ci avanzerà di certo, è vostro». - «Ma che sta a pensare alla morte; pensi a campare e i soldi se li mangi tutti, rispondevano gli angelici parenti, mentre gli contavano gli anni addosso.
Ciaciocco, che era assai vecchio, poco dopo l'invenzione della burla morì.
I figlioli subito si dettero da fare per rispettare le sue ultime volontà: ordinarono una bella cassa, comprarono il «colombaio» e chiamarono l'Assistenza per un bel trasporto.
Tacitata la coscienza con l'esecuzione di queste formalità, si recarono alla segreteria del Ricovero per ritirare il «libretto». Ma l'impiegato non aveva nessun libretto a nome di Ciaciocco; andarono anche in Direzione, ma non risultava niente. Allora si fece avanti il Simonti.....
Ponte di San Giovanni Nepomuceno



La Tombola

Al Libro dei Sogni è collegato anche il gioco della Tombola, e se nel lotto erano le cose ad avere numero, qui -viceversa- sono i numeri ad assumere il nome delle cose che rappresentano.
La Tombole, come il Lotto, è il gioco della povera gente, perché non ci vuole astuzia per vincere, né molti soldi per giocarla; in compenso offre la possibilità di riunirsi e divertirsi.
Beppe Canessa aveva un magazzino in Venezia, e precisamente in Piazza del Luogo Pio, dove teneva i barroccini e le casse della merce che la moglie, la Rossa, vendeva nel negozio accanto. La domenica lo sgombrava di tutti gli arnesi del mestiere e lo apparecchiava per il gioco della Tombola con cavalletti, assi, panche, sgabelli e vecchie seggiole.
Sui tavolini così arrangiati si spargevano lupini, fagioli o chicchi di granturco per «segnare» i numeri, ed infine si mettevano cartelle, cartellone e una bella borsa di telone con le ghiande gobbe, che erano di duro bosso e molto grandi.
Ma se il Lotto era il gioco di tutti, uomini e donne, la Tombola era il divertimento e il passatempo solo di quest'ultime, abituate com'erano a non uscire mai dal quartiere, mentre i loro mariti, padri o fratelli andavano a «fare il fiasco» con le carte dalla Popi, dal Gufoni o da Edipo (Storpiato in «Elippo»).
La direttrice — se così si può dire – di questo banco era Cleofe, una buona donnona, madre delle «Cionche». Era lei che dava inizio al gioco alle cinque del pomeriggio e lo chiudeva alle sette, che' a quell'ora era tutto un chiedere ansioso:
- «Che ore sono? Mamma mia, sbrighiamoci che' mi ritorna a casa «lui»... se non trova pronto ....»
Lui era l'uomo della famiglia.
Per illuminare la stanza (si giocava in inverno) si mettevano le quattro candele, infilate in quattro bottiglie; qualcuna più raffinata si portava da casa una bugia di terracotta o di maiolica, e, alla fine del gioco, levato il moccolo, se la riportava a casa.
Fatte le puntate, che andavano da due centesimi la cartella fino a 10 centesimi per il cartellone, per la prima cosa si levavano, ovvero si mettevano da parte i soldi per pagare le quattro candele; il resto si divideva in due gruzzoletti: uno pagava la cinquina e l'altro la tombola. Per il magazzino non c'era bisogno di accantonare soldi, perché Beppe lo dava gratis.
Questo Canessa, cugino di mio nonno, era soprannominato Mustiola, perché era talmente scontroso che se per esempio un giorno usciva di casa con una camicia nuova, e questo veniva notato:
- «Ma che bella camicia ti sei messo!
E se il complimento veniva ripetuto più volte, appena poteva si sfilava l'indumento e non lo indossava più.
Ma questo gioco gli addolciva talmente il carattere che ogni tanto, dal negozio di commestibili della moglie, dove stava a riparare le carrette, si affacciava nel magazzino per assistere alla tombola.
La Cleofe, rimescolava le ghiande nella borsa e le estraeva dicendo a voce alta e cantilenante quello che il numero rappresentava: - «Le 'arrozzine (22)..., la gambacce (77)..., il mare (1)..., la lite (28) e così via.
Le più giovani, non ancora pratiche di questa trasposizione verbale chiedevano alle più anziane: -«Che numero sarebbe la popò?».
E quelle: «Nove»!
-«E i finanzieri?» - «Sette!, meno della m.»
E scoppiavano a ridere. Sappiamo come le veneziane non nutrissero eccessiva simpatia nei riguardi delle autorità (Canaviglia ott.-dic. 1979).
Alle risate si sostituivano risolini e ammiccamenti all'uscita di certi numeri:
- «Il crea popoli» (27).... la «vostra» (80).... gli sposini (63)»....
- «Vediamo quanti anni hanno questi sposini».
Ed i due numeri successivi davano l'età della donna e dell'uomo e il più delle volte davano adito a frasi allusive e spiritose per le notevoli differenze che c'erano fra le due età.
Poi, all'improvviso:
- «Mia.... Ho fatto la cinquina».
E le altre donne invidiosette, rivolgendosi alla fortunata:
- «Dicci i numeri, dicci i numeri!».
E così controllavano con le loro cartelle e il cartellone la riga vincente, alla quale veniva subito pagato – mettiamo – un franco e mezzo.
Per la tombola era un'ovazione generale e tre lire di vincita.
Talvolta l'ansia di vincita creava nelle donne la speranza che quel numero che a loro mancava per fare la cinquina o la tombola fosse già uscito e chiedevano:
- «E' uscito l'otto?... E' sortito il 23?», creando confusione e fermate.
Antonio Piemontese, 1784 Collezione Miramare, Trieste
Era un gioco alla buona per gente alla buona; semplice e simpatico, così simpatico che Cassuto, divenuto deputato, quando da Roma veniva a Livorno, se ne andava in Venezia (Canaviglia n. 4 ott.-dic. 1979) e, insieme al suo amico Suggi, veneziano e professore di lettere, si recava al magazzino di Beppe per assistere a questa tombola figurata, mettendo un po' in soggezione le donne.
Poi, tornato a Roma, in Parlamento raccontava a tutti «della tombola delle donne di Venezia» e ci godeva un mondo, perché era innamorato di questo quartiere e della sua gente.

Bibliografia:

La Canaviglia, anno VI, n. 2, Aprile Giugno 81, U. Bastogi Editore, pagg. 71 - 75
Giuseppe Piombanti, Guida storica ed artistica della città e dei contorni di Livorno, Livorno, Gio Marini Editore,1873, pag. 239


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