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IL "RISANAMENTO" DELLA CITTA' DI LIVORNO




Guardando le immagini della città di Livorno, le stampe della fine dell'ottocento o di inizio novecento, mi stringe il cuore nel vedere la parte più antica della nostra città.
In particolare la zona antistante il porto, con quello che era il Bagno dei Forzati poi utilizzato per l'ampliamento dell'ospedale di S. Antonio, la piazza del Bertolla e l'incantevole via della Rosa Bianca.
Demolite sotto la furia di un piccone che aveva l'ambizione di risanare, distruggendo la storia.
La mia amarezza viene lievemente sollevata dal fatto che quanto non annientato dal piccone, sarebbe caduto per mano delle bombe pochi decenni dopo.

Vi riporto un articolo di Francesco Sorbi in Liburni Civitatis, del 1906, pagg. 169 - 179, dal titolo Rinnovamenti Edilizi nell'antica Livorno.



 "La nostra Livorno – astraendo la sua parte centrale ed il quartiere della Venezia “è una città moderna; le sue vie si stendono brevi, ampie, arieggiate, piene di luce, fra case dalle facciate generalmente linde, di stile architettonico semplicissimo e quasi uniforme.
Dalla piazza Cavour, che i livornesi chiamavano un tempo il “nostro salotto buono”, le via degli Elisi, ora Giuseppe Verdi, la via della Pace, ora Ernesto Rossi, la via Maggi, la via del casone, ora Cairoli, gli scali degli Olandesi, d'Azeglio, Manzoni, Aurelio Saffi, si aprono a grande ventaglio e portano per un lato al centro, nella piazza Vittorio Emanuele, e per gli altri al mare e alla periferia sud.
Il centro e la Venezia – chiamata così quella parte di Livorno, che intersecata dai canali, e dai ponti, rammenta la città della Laguna – sebbene alquanto più antichi, hanno vie spaziose, case pulite, e palazzi di robusta costruzione, di bello aspetto e di severo stile.

Se un nostro cittadino di cent'anni fa, riaprisse gli occhi, e si recasse in alcuni punti di Livorno, dove il piccone ha compiuto o ha iniziato l'opera di civiltà e di rinnovamento, non si raccapezzerebbe più.
Quest'opera è di recentissima data, può dirsi anzi al suo principio. Il mercato, le scuole, le barriere. L'allargamento della conta, dovuti all'amministrazione Costella, hanno reso notevolissimi vantaggi estetici e artistici della città.

Il "focolare di perniciose esalazioni"
Non tenendo conto del riempimento del fosso di Venezia, focolare di perniciose esalazioni e che ha dato posto al viale Caprera, decreto dell'amministrazione Orlando, il concittadino di cento anni fa non riconoscerebbe quella parte di Livorno, tra la via del Fante e via Fagioli, detta vecchi molini.

Un tempo colà, luride catapecchie, a cui si accedeva scendendo come in un fossato, con feritoie invece di finestre, dove il tenue spiraglio d'aria e di luce era conteso da un distesa di cenci posta ad asciugare, nella vana pretesa di apparir biancheria ed eterno alimento e ricovero assieme, di sudici insetti.
Dentro stamberghe ottuse, ricetto di veri vivai umani e bestiali di cui, gli umani, alternati tra l'ozio, il vizio ed il delitto, eran facile preda della questura: fuori, monelli sbracalati, senza camicia, e invece di camicia uno strato di sudiciume di colore indefinibile, da fare invidia, il colore, bene inteso, al moretto del Vaccari, l'autentico quinto moro labronico.
Questo immondezzaio di cose e di persone, era annidato lì, tra la chiesa S. Benedetto, la piazza venti Settembre, la via Fagioli, la via Fiorenza e il superbo edificio scolastico Antonio Benci spingendo i suoi tentacoli dalla parte opposta fino agli scali degli Olandesi.
Ora più nulla di questa vergogna.

Negli scali degli Olandesi il signor Ranieri Zari, valente costruttore, ha fatto sorgere una ridente palazzetta, per i suoi uffici e i suoi magazzini; nella via dei Vecchi molini, nel posto un tempo occupato dalle casucce quasi diroccate e sudicie, è il palazzo degli Asili Notturni.




Gli Asili Notturni avevano sede in via S. Fortunata n.4, sin da quando nel 1893, dopo il colera, il cav. Uff. Alceste Cristofani benemerito presidente, secondato dal Comitato, appositamente sorto, li creò, benedetto ricovero, nelle notti rigide d'inverno per la gente povera e senza letto.
 I nostri Asili Notturni, prima opera filantropica di tal genere in Italia, presa a modello di poi, nel campo sconfinato della carità e dell'amore, da altre 42 città consorelle della penisola, per lo sviluppo sempre crescente, , e pel sempre crescente miglioramento e perfezionamento, mercé il vigoroso impulso del cav uff. Cristofanini, non pevano rimanere nei locali risptretti della via S. Fortunata.
Con opera indefessa e intelligenti cure del Comitato, con l'aiuto larghissimo della cittadinanza gli Asili Notturni, raccolsero sufficienti fondi per la costruzione di un locale proprio.
Il cav. Uff. Cristofanini pensò felicemente di unire in una sola opera umanitaria e sociale, il bene degli Asili Notturni, il bene della città, e dopo non brevi e non lievi difficoltà superate con mirabile tenacia riuscì a sventrare quell'ammasso di catapecchie denominate i vecchi molini, e di far sorgere nell'area ottenuta, il palazzo della filantropica istituzione.
La costruzione di quel nuovo locale fu affidata all'imprenditore sig. Ranieri Zari, il quale essendo proprietario di quelle catapecchie facilitò lo sventramento; il 3 maggio 1905 fu posta la prima pietra, il 19 novembre 1904 S.M. Il Re Vittorio Emanuele III lo inaugurava solennemente.
Il locale degli Asili Notturni, sorge ora, dunque, nella via dei Molini e rispondendo il tutte le sue parti e in tutta la sua organizzazione a quanto di più igienico e moderno possa immaginarsi, ha abbellito quella parte di Livorno, un tempo infestata dai vecchi molini.



 Un'altra località della nostra Livorno certo non riconoscibile, è quella di Crocetta nel quartiere di Venezia.
Il padre Saglietto dei Trinitari, parroco di amato e venerato da tutti i parrocchiani, dalle finestre del suo convento, osservava col cuore stretto qual vita di abbruttimento si svolgesse negli abituri di quel blocco compreso tral la chiesa di Crocetta e le vie di Mezzo, delle Formiche e S. Anna formante un quadrilatero assai esteso.



 




Padre Saglietto



Quei fabbricati erano completamente in rovina e perciò abbandonati dai proprietari ì, e tuttavia abitati da numerosissime famiglie agglomerate in due, tre e più per ogni quartiere, dove la promiscuità di fanciulli, di vecchi, di donne e d'uomini nelle stesse stamberghe, ed anche negli stessi giacigli, era fonte di vizio, d'immoralità, di malanni. Le straduzze strette, i caseggiati alti di quattro e di cinque piani, i cortili angusti quasi come pozzi, impedivano all'aria e al solo l'opera loro salutare e benefica quindi gocciolanti le pareti di fediti umidori, odor di tanfo per ogni dove.
E' ricordato lo scalpore che il colera del 1893, ebbe nelle vie di S. Anna, delle Formiche, e di Mezzo a differenza di altri quartieri.
Padre Saglietto ebbe l'ardimento di farsi promotore d'un opera buona quanto difficile: lo sventramento di quell'ampio blocco di case.


 
Si accinse da solo all'ardua impresa. Le trattative per le espropriazioni furono lunghe: e fu chi tentò di farne una speculazione ostacolando l'opra bellissima e generosa: fu chi donò l'impulso dell'animo buono, spontaneamente, come l'amministrazione dei RR: Spedali, il signor Tommasi, l'ingener Frullani, il signor Emilio Mazzoni, la loro proprietà; chi largì somme per aiutare la bella impresa: i privati cittadini, il Comune, altri enti e innanzi tutti l'augusta e pietosa vedova di Umberto I.

 
 



Le demolizioni, affidate al signor Ranieri Zari, cominciarono il 28 gennaio del 1905, ed ebbero compimento il 10 gennaio 1906. Per cui è scomparsa anche la vecchia chiesa di S. Anna che sarà ricordata con la seguente epigrafe del chiarissimo prof. Pietro Vigo:
“Qui sorse su disegno dell'architetto G.B. Santi, la chiesa della ven. Confraternita della natività di Maria SS: e S. Anna. Arricchito il tempio di sacri arredi e insigne per il decoro di sacre funzioni, ebbe doni e lasciti che dettero modo al pio sodalizio di esercitare largamente le opere della crisitana carità. Accolse di frequesnte fra le sue mura i granduchi medicei e rinomatissimi oratori. Soppressa da Pietro Leopoldo I granduca di Toscana nel 1785 fu riaperta al culto per la storica sommossa del 1790 e ribenedetta, con solenne funzione, dal Presule Pisano il quell'anno medesimo, l'ottavo giorno di settembre. Danneggiata dal tempo e dai terremoti e minacciante rovina fu chiusa al culto fin dal 1862 e demolita nel 1905”.






Ora quel blocco di catapecchie non esiste più, ed un'area di ben 1800 metri quadrati si estende tra le dette vie. Di esse una parte sarà trasformata in olezzante giardino, una parte ha dato posto ad un ampio e severo loggiato, ed una ultima parte è destinata a doventar bosco fronzuto.
Così i malanni, la vergogna e il vizia annidati per tanti anni in quel punto della città saranno sostituiti dall'aria balsamica, dal cinguettio degli uccelli, dalla pace e dalla serenità, e lì i giovanetti del popolo si addestreranno nell'arte dei suoni che ingentilisce il cuore, e negli esercizi ginnastici che fanno baldi e forti.



Perché padre Saglietto ha fondato da cinque anni in Livorno la Pia Opera per la salvezza della Gioventù, che ha lo scopo di raccogliere i giovani del popolo per dar loro una istruzione ed educazione civile. A tal effetto fu formato un concerto musicale diretto dall'esimio maestro carlini, una scuola di canto diretta dall'esimio maestro Silvio Taddei, una scuola di declamazione e di recitazione, una biblioteca circolante, una palestra ginnastica, e tra breve sarà
impiantata anche una scuola di tiro al bersaglio.
I locali
della Pia Opera sono posti attiguamente alla chiesa di Crocetta, e ad essa verranno adibiti il loggiato, già costruito, il giardino e il bosco, che sorgeranno nell'area ottenuta dalla demolizione.
Sul luogo delle demolizioni sarà murata la seguente epigrafe, anche questa dettata dal professore Pietro Vigo:



La chiesa di Crocetta che, come dice l'epigrafe, ha acquistato il decoro per le compiute demolizioni al suo lato destro, è un edificio a forma di croce, sormontata da alta calotta o cupola, nuda di decorazioni dall'esterno, ma nell'interno molto ben decorata di pilastri in ordina composito, di statue, di marmi e di stucchi in stile alquanto tendente al barocco, ma elegante e decorativo.
La sua costruzione cominciò il 25 marzo del 1707 coi disegni dell'architetto Vincenzo Faggini ed a spese del principe Ferdinando dei Medici, figlio di Cosimo III.
Ecco perchè la chiesa che il popolo chiama Crocetta, è votata a San ferdinando. Fu compiuta nel 1717.
In essa ammiriamo statue e bassorilievi digran pregio, che furono scolpiti quasi tutti dal carrarese conte Giovanni Baratta. Primeggiano il gruppo dell'altare maggiore, l'altorilievo della cappella di San Pietro, il bassorilievo della crocifissione di San Pietro, ed i grandi ovali della virtù.
La Prefettura e l'ufficio per la conservazione dei monumenti ottennero, anche mercé l'alto interessamento della regina Madre, che si stanziassero ventiduemila lire per i lavori occorrenti il restauto, che si spera compiuto nel secondo centenario della chiesa e cioè il 25 marzo 1907.
Nel 1896 su proposta del R. Ispettore Guido Carocci fu iscritta tra i monumenti nazionali.
La chiesa di S. Ferdinando possiede parecchi oggetti sacri in legno ed in argento di un certo pregio, tra cui un busto di S. Ferdinando che oltre al valore artistico, ha ancor quello storico, essendo il ritratto del principe Ferdinando fondatore del tempio.
Padre Saglietto, parroco della chiesa, sta arricchendola di una collezione di quadri a olio e di incisioni di un certo pregio. La collezione delle pitture, alcune della scuola Fiorentina e del cinquecento, altre della scuola Bolognese e della scuola Veneta, e quasi tutte ricevute in dono, sono state restaurate dal prof. Luigi Verdura, ed ascendono a cento.
La collezione delle stampe ascende a circa tremila, e tutte di grande interesse storico.
Ma in questo vigoroso inizio di sventramento, di risanamento, di riedificazione, l'opera grande, titanica, che nessuno si sarebbe sognato di veder compiuta, perché nessuno avrebbe avuto l'audacia di concepirla, e la forza di attuarla è quella attorno all'ospedale.
Dopo la vittoria scientifica e umanitaria del Sanatorio Umberto I, l'Amministrazione dello Spedale sentì di dover provvedere al Nosocomio: ristretto, affogato tra innumerevoli case, alcune crollanti, altre tana di folta popolazione tormentata dalle malattie e dalla tristezza.
I ricoverati dello Spedale erano come reclusi: non un raggio di sole, non un soffio d'aria vivificatrice, non uno spazio innanzi agli occhi, a rallegrare l'animo mesto e stanco, nella vista del cielo azzurro, del mare azzurro, della luce sfolgorante con tanta dovizia su questa terra ridente.
I ricoverati erano reclusi, le corsie dense di malati, i precetti elementari dell'igiene impossibili a praticarsi; la scienza senza l'ausilio dell'igiene lenta ad agire contro il male; tutto sconsolato, tetro, orribile, che piombava l'animo nella tristezza più profonda, nello sconforto più intenso, nella oppressione d'ogni speranza, nell'abbandono alla vita; tanto che il Nosocomio poteva, giustamente, dirsi non un luogo di sanità di guarigione, ma la preparazione alla morte, un camposanto di gente ancor viva.




 Chi dalla Piazza Vittorio Emanuele, rasentando il Palazzo della Borsa, scelto dalla Camera di Commercio a nuova sua sede, e che si sta innalzando di un piano, si fosse inoltrato verso l'ospedale visto aprirsi innanzi due strade: quella di via de' Magnani, la fucina dei vecchi livornesi, a ridosso del lato sinistro dell'ospedale; via sudicia, piena di pozzanghere e di rifiuti, e quella di via San Giovanni, l'antica via principale di Livorno, che prese il nome dalla chiesa, che sorge a destra di essa sull'angolo di via Carraia.
La via San Giovanni, a cui si congiungeva la via Magnani ad angolo retto, sboccava nella via di S. Antonio che segnava il lato posteriore dello Spedale, mentre il lato di destra era segnato da via della Rosa Bianca.









 La via S. Antonio – oltre la quale è il famoso trivio del Bertolla, la via Medicea, la Piazza Galli Tassi, Porto Vecchio – sbocca come abbiamo accennato in via S. Giovanni da una parte, e dall'altra in via del Giardino, che a sua volta si ricongiunge a via della Banca, segnante il lato anteriore dello Spedale, che si trovava asserragliato, ristretto da case diroccate, da popolazione povera e densissima.




Il comm. Rosolino Orlando, non potendo o non volendo provvedere alla costruzione di un nuovo Spedale, e dopo, che nel passato, si fece vano appello alla cittadinanza per una sottoscrizione a questo scopo, concepì l'ardito piano di isolare l'attuale Nosocomio, liberarlo dalle case che lo attorniavano e sostituirle con giardini e ampie vie.


Quel gruppo di fabbricati sorti tra la via de' Magnani e via San Giovanni, tra la via della Rosa Bianca e via del Giardino, e oltre la via S. Antonio, dovevano sparire e sparirono di fatti, in parte, e in parte spariranno.









Ma le difficoltà per attuare questo vasto ed imponente progetto, furono lunghe, pertinaci, quasi invincibili. Si dovette lottare con 200 proprietari, attraverso livelli, censi, minorenni, interdetti e speculatori dell'ultim'ora.
A superar gli ostacoli molteplici occorse la tenace energia del comm. Rosolino Orlando ebbe trasfusa nel sangue generoso della sua razza forte e laboriosa, ed occorsero la fermezza di proposito e l'amor di concordia di tutta la Commissione Amministratrice dell'Ospedale(…)
Presto il piccone demolitore iniziò l'opera sua, caddero con frastuono scrosciante, tetti emuri tra nuvoli di polvere; e l'aria, la luce, il calore penetrarono, invasero da ogni parte a recare salute, giocondità e vita.
La case da demolirsi erano più di cento: sessanta sono già rase al suolo. Tra breve via San Giovanni, nuova, larga, diritta, porterà al mare e accoglierà le svariate manifestazioni della vita cittadina; il palazzo di giustizia, il palazzo delle postee dei telegrafi, il palazzo della beneficienza, il palazzo dell'igiene, e altri uffici, e banchi; e l'ospedale risanato, arieggiato, soleggiato, sarà degno finalmente di una città civile come Livorno".

Francesco Sorbi in Luburni Civitatis, pagg. 169 - 179





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