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La Cripta di San Jacopo e la Massoneria

Foto di Giovanni Gallo Senior
Interno della cripta di San Jacopo in Acquaviva
Qualche anno fa mi passò fra le mani un antico testo, dal titolo suggestivo: I demagoghi o misteri di Livorno, edito nel 1862 da Luigi Cioffi Editore a Milano. L'autore è un avvocato Livornese, Cesare Monteverde. Tutto quanto sono riuscita a sapere sul suo conto, l'ho trovato nel Dizionario di persone e cose livornesi di Giovanni Wiquel: “Monteverdi: antica famiglia livornese, immigrata nel XVII secolo da Chiavari. Tra i suoli molti membri: (…) Cesare Augusto, citato da Adolfo Mangini in “Livorno nell'Ottocento”, avvocato, lasciò fama di letterato con la sua tragedia “La Pia”, scritta giovanissimo; sembra fosse autore di un libro “I Misteri di Livorno”, ormai molto raro”.
Sebbene il testo fosse raro, sono riuscita a leggerlo e con molto interesse. Mi ha permesso di fare un viaggio a ritroso nella Livorno della seconda metà del 1700.
Ho trovato accenni e descrizioni dei luoghi della Venezia di quei tempi, che sono simili a quelle presenti nei testi di saggisti a lui contemporanei.



Realtà e fantasia si intrecciano spesso, creando suggestioni particolari. Sembra quasi di passeggiare nel quartiere della Venezia, passando dalle luride casupole che ospitavano la povera gente, ai palazzi sontuosi dei ricchi spedizionieri che utilizzavano il porto di Livorno per i loro traffici commerciali. Monteverdi si riferiva agli storici palazzi di Via Borra? Appartengono ad essi le sale e gli arredi descritti nelle cene di gala che si svolgevano al loro interno?

Facevano riferimento al reale le parole riferite alla taverna dei Tre Mori, al lazzeretto di San Jacopo e alle cripte presenti in quei luoghi?
Le mie domande, dopo qualche tempo si acquietarono e furono dimenticate.
Qualche anno più tardi mi capitò di leggere un altro libro: Livorno tra squadra e compasso, scritto da Cardo Adorni e pubblicato nel 2006.
Molte frasi mi richiamarono immediatamente alla mente il romanzo del Monteverdi, leggendo in sinossi i due testi sono rimasta piacevolmente sorpresa.
Non voglio annoiarvi con le mie conclusioni, ma mi limito a farvi leggere quanto io ho già letto. Traetene le vostre conclusioni.
"(...)l'osteria dei Tre Mori, posta nel vicolo che dalla Crocetta mette alla via di Sant'Anna, via remota, solinga, del peggio quartiere di Livorno, dove un galantuomo non può passare pei fatti suoi nella notte senza pericolo di essere gratuitamente sventrato, e di giorno senza che gli sia rubata la pezzuola, l'oriuolo o la borsa".

"L'osteria dei Tre Mori non aveva insegna e neanche la frasca indispensabile ai templi di Bacco. La porta di essa, lungi dall'essere verticale, era orizzontale alla via, cioè consisteva in una apertura quadra della dimensione di due braccia di larghezza e altrettante di lunghezza, la quale aveva un coperchio che, dalla parte superiore alzandosi a guisa di una grande scatola, lasciava vedere gli scalini di una scala tortuosa e scura, in fondo alla quale stava la prima sala dell'osteria. Questa sala, o piuttosto cantina, non aveva palco, era a volta, nera ed umida: accanto ad essa erano altre tre stanze, una ad uso di cucina, l'altra ad uso di salotto, la terza ad uso di camera; in quest'ultima si vedevano tre botole le quali mettevano in altrettanti anditi sotterranei, destinati a ricevere l'onesto prodotto della così detta busca dei veneziani livornesi, nome con cui da costoro viene appellato quel giornaliero lor modo d'impadronirsi della roba altrui. La polizia, non che visitare quell'antro, prendeva ogni cura di allontanarsene quando era in ufficio di vigilanza, mentre peraltro non era raro al taverniere dei Tre Mori l'avere ad annoverare fra i suoi clienti qualche onesto famiglia del bargello. L'Osteria Tre Mori, era luogo di riunioni anche per i massoni e i carbonari e lo fu finché non furono costretti a spostarsi a San Jacopo". (p.37)
Di questo “spostamento” troviamo menzione nel libro dell'Adorni
“Da quanto risulta nella documentazione del Grande Oriente d'Italia, soltanto nel 1763, sarebbero state operanti a Livorno delle confraternite massoniche. Confraternite che finirono con il suscitare particolare scandalo presso le autorità ecclesiastiche da far chiedere al governo toscano provvedimenti immediati. Ma in realtà ben poco o niente sappiamo circa le finalità politiche e sociali che esse si proponevano. La persecuzione politica e religiosa nei confronti della Massoneria è riscontrabile dai documenti esistenti negli archivi statali di Firenze e di Livorno: questa persecuzione si venne poi ad accentuare in prossimità dell'esplosione rivoluzionaria dell'89 quando le idee “Libertà e Uguaglianza” cominciarono a diffondersi anche in Italia. (…) Il Marchese Bourbon inviò un rapporto al cav. Francesco Simonetti, allora ministro degli interni a Firenze (29 marzo 1773) nel quale informava che in una locanda della nostra città, gestita da un certo Miston, ginevrino, si tenevano adunanze dei Liberi Muratori. Le adunanze si tenevano di sera e più volte la settimana, in un locale comunicante con la locanda tramite una porta segreta. Vi prendevano parte persone di nazioni e religioni diverse, negozianti stranieri, spesso ebrei e protestanti, ma anche alcuni ufficiali granducali. Anche su sollecitazione del Govern di Firenze, il Governatore di Livorno intervenne con molta riservatezza, ottenendo che le adunanze massoniche non fossero più tenute. Ma in realtà i massoni continuarono ad adunarsi con circospezione e prudenza senza che la polizia ne avesse certezza.Sin dalle prime adunanze framassoniche la componente ebraica fu radicata nel tessuto sociale ed economico cittadino, che voleva sempre più contare sia politicamente che intellettualmente. Nelle logge massoniche livornesi la forte componente ebraica venne inizialmente intesa come una manifestazione di un più alto contesto di tolleranza religiosa. Soltanto verso la fine dell'ottocento tale forma di tolleranza religiosa venne spesso prevaricata da un sempre più acceso anticlericalismo.
Le riunioni di queste logge si svolgevano in luoghi periferici ed appartati, per non suscitare sospetti nei membri dell'Inquisizione. Per questo venivano tenute sulle navi ormeggiate in porto o in rada, o nelle sale appartate delle osterie o in alcune ville sul colle di Montenero”. Pagg. 21-22
Foto di Giovanni Senior Gallo
 
Torniamo al Monteverdi:
Fino dal mattino, al comparire del sole, nella osteria dei Tre Mori era stato concertato che Bruto, Cacanastri, Narciso e quanti erano là piccoli capi tenessero pronti i loro affigliati, i quali, per tempo uscendo fuori delle mura, dovevano trovarsi dopo la mezzanotte nel sotterraneo di San Iacopo lungo il mare. Gli ordini erano corsi con molta celerità, e certamente non avrebbero mancato di trovarsi colà tutti coloro di cui un giuramento tremendo legava il volere a quello del Caprone. Ma qual era lo scopo di tal ragionata notturna? Noi andiamo a dirlo ai lettori nostri onde non tenerli in tanta curiosità. Il Caprone era uno dei più accaniti carbonari che la setta di allora contasse nella penisola; teneva sotto il suo regime la congrega di Toscana, combinando coi capi della setta esistente in altre
provincie un decisivo movimento di sommossa".
Monteverdi ci fornisce un'attentissima descrizione del luogo dove i massoni si riunivano:
"Lungo la scogliera delle spiagge di San Iacopo esisteva una sotterranea galleria scavata nel tufo. Forse le onde del mare coll'andare dei secoli addentrandosi nella terra aveano formato quella volta naturale; e l'acqua col volger del tempo ritirandosi aveva lasciato asciutto quel sotterraneo. La sua apertura, nascosta fra gli scogli coperti di alghe e piante marine e quasi turata dalla arena trasportatavi dai flutti, a pochissimi era nota. 
Foto di Giovanni Senior Gallo
 
Attualmente essa è rimasta così ingombra che non può discernersi se non se da colui che abbia la veduta assai anni addietro. Il sotterraneo, che si estendeva molte e molte braccia, penetrava al di sotto della chiesa attuale: e nei primi secoli del cristianesimo, quando nei luoghi dell'attuale chiesa vi era un convento, probabilmente quella galleria, comunicando colle tombe della chiesa del cenobio, aveva servito di ritiro alle meditazioni di quei religiosi e forse di nascondiglio a non pochi dei primitivi cristiani, furiosamente perseguitati dai pagani, signori del mondo. (...)
 
Ma ritorniamo a a noi: come io dunque diceva, il sotterraneo aveva la sua entrata fra gli scogli e dopo un cento passi la volta si faceva stretta, ed il terreno si approfondava con sensibile declivio; tal che, camminando fra quelle tenebre, avresti creduto di essere entrato in quello da cui il vecchio Enea passo passo se ne andò alle porte dell'Averno. Il mio sotterraneo peraltro non era tanto lungo; poiché dopo circa quattrocento passi si arrivava ad un ripiano che formava un quadrilatero non disdicevole ad una grandiosa sala da ballo; le muraglie erano tutte di tufo e di conchiglie. Questa sala, tutta a volta spaziosa, comunicava con due lunghe gallerie; da queste metteva in altri due salotti più lontani e più grandi del primo; sicché, come ognun vede, quella gran sala potea dirsi l'anticamera, e le altre potevano essere usate per luogo di numerosa riunione.
Foto di Giovanni Senior Gallo

È facile l'imaginare come quel luogo offrisse tutto il comodo di parlare ad alta voce, poiché quelle pareti non avevano orecchie, ed il suono non avrebbe giammai oltrepassato il palco della spessezza di un terzo di miglio di terreno. Egualmente impossibile sarebbe stato a qualunque curioso il sentire il cicaleccio di coloro che erano dentro stando all'estremità della grotta, sì perché lo avrebbe impedito la lontananza (...) Ecco dunque che la nostra caverna era più che idonea al misterioso ritrovo di quei fanatici, i quali si eran posti in idea di rinnovellare il mondo sociale, tanto per tutelare la loro personal sicurezza quanto per la libertà di parlare a voce alta; il che suole accadere bene spesso in quel genere di assemblee. (…) La prima sala delle catacombe aveva per pavimento il nudo suolo; quella a cui metteva l'ala destra del sotterraneo quando dalla sala si partiva in due era tutta sul pavimento coperta di un largo tavolato di grosso legno, il che dimostra che coloro i quali ne facevano uso avevano cura di tenere i piedi all'asciutto, o per qualche altra ragione adesso a noi sconosciuta avranno creduto bene che quel pavimento dovesse essere di grosse tavole di abete.
 
La sala che noi abbiam descritto non aveva che un rozzo e gigantesco tavolo tondo con intorno una quantità di sedili dell'istessa forma e rozzezza. Alle pareti erano attaccati grossi anelli di ferro i quali sorreggevano dei candelabri tutti rugginosi dalla salsa umidità, sovrapposte ai quali grosse padelle di metallo con entro strutto o sevo e bitume, che una volta accese tramandavano tal rossa e funebre luce da far abbrividire qualunque buon cristiano; e siccome il fumo avrebbe certamente soffocati coloro che si fossero radunati in quella profonda caverna, al di sopra di quelle bizzarre e quasi infernali lucerne esisteva scavata nel tufo una specie di cappa non dissimile da quella dei nostri camini, la qual cappa metteva nel corridore primo del sotterraneo, da dove il fumo usciva per la imboccatura della grotta. La sala da noi descritta conteneva appesi al muro grossi triangoli di ferro, simili assai alle nostre graticole su cui poniamo le casserole e le pignatte, i quali triangoli, per quanto assicurano gl'intelligenti in materia di sette, erano altrettanti oggetti indispensabili a quei fanatici.
Oltre i triangoli, vi avevano in quel luogo varie forchette a tre denti, dei dadi a tre facce, in somma il numero tre era molto ripetuto in quel luogo; ed in un quadro di grossolana pittura si mirava finalmente entro un triangolo dipinto uno sterminato occhio di bove. Quella sala era chiamata sala del comando o del gran maestro, poiché era in quella che gli iniziati alla setta dovevano subire le strane prove per la definitiva ammissione e proferire il più terribile giuramento. La seconda sala, quella in cui metteva la galleria a sinistra, era chiamata sala d'aspetto, e là avevano luogo le abluzioni dei candidati, ed ivi si vedeva una gran vasca ad uso di bagno, un gran camino per scaldare le acque, caldaie, paioli, ecc., in somma vi erano tutti gli oggetti indispensabili alla cerimonia: quella sala era detta ancora la sala della purgazione". (Pagg. 39 - 41)
Foto di Giovanni Senior Gallo

"Le catacombe eran per lui il suo mondo, il suo seggio; era là che poteva comandare ed essere obbedito, di là dettar leggi all'universo; giovane di ventisei anni, bisogna compatirlo se ei bramava dare ampia idea della propria potenza alla donna del suo cuore: e questa è la ragione per cui bramava che Rosina venisse al convegno.
La sala del gran mastro è già ripiena della folla de' congiurati.
È mezzanotte: la squilla lugubre di un oriolo a pendolo l'annunzia con dodici tocchi; i quali simultaneamente vengono ripetuti dall'orologio della piazza d'arme e del lazzaretto, dalle campanelle delle sentinelle che vanno mutando di fazione. La notte è cupa, nessun lume si vede nei dintorni di San Iacopo, la spiaggia è deserta.
Ma già l'ora fatale è nuovamente rimbombata per l'aere nei suoi dodici tocchi. Il sotterraneo è già pieno dei più fedeli al giovane entusiasta. Egli è al primo posto della tavola rotonda ed ha innanzi a sé alcune carte importanti; le pareti sono illuminate dalle faci che noi abbiamo già descritte. Giovanni batte tre colpi su uno scudo di bronzo che ha sopra la gran tavola. Il più cupo silenzio regna fra i radunati. Giovanni spia per quella folla onde vedere la testa dell'amata, di Esmeralda e di Alfredo; le sue indagini sono vane: egli batte tre tocchi nuovamente sul grave scudo, e l'eco li ripete per quei vasti sotterranei; tutti i radunati s'inginocchiano".

Qualche pagina più avanti viene descritta una rovinosa fuga dei congiurati, che era stati scoperti:

"Esse ricorderanno che, dopo pochi istanti dall'improvvisa comparsa del negro, quel cospiratore aveva, con un calcio dato in una molla, fatto alzare il pavimento di tavola della sala del maestro delle catacombe e ciascuno con lui precipitare nel sottoposto baratro. Ognuno crederà che, nel precipitare dall'alto al basso in modo brusco ed improvviso, qualcuno dei caduti si fosse fracassato un braccio, una gamba, lussata una spalla, rotto il cranio, e che so io? Ma no: nulla affatto di questo: nella sottostanza della sala del maestro era stata da gran tempo appositamente ammassata una quantità considerabile di lana da materassi, la quale, nel caso in cui ai congiurati facesse bisogno di precipitare nel baratro, potesse addolcire la caduta per modo che le loro membra non ne soffrissero alcun nocumento; ed infatti tutti gli adunati laggiù si trovarono in un monte; ma, passato il primo momento di sorpresa, si alzarono, si assettarono alla meglio nelle vesti e nei capelli e si avviarono per lunghissimo ed umido andito ad altra uscita del sotterraneo che metteva in luogo affatto opposto alla riva del mare, sulla quale sarebbero stati sorpresi dalla forza, se per là si fossero procurati una sortita".(P. 67)

 
Queste descrizioni sono frutto di realtà o di fantasia? Chi sta lavorando al recupero della cripta di San Jacopo, trova qualche rispondenza nei luoghi descritti? 
Chissà!

Bibliografia:
Cesare Monteverdi, I demagoghi o i misteri di Livorno, Luigi Cioffi Editore, Milano, 1862;
Carlo Adorni, Livorno tra squadra e compasso, Edizioni il Quadrifoglio, Livorno, 2006
Giovanni Wiquel, Dizionario di persone e cose livornese, U. Bastogi Editore, Livorno, 1976 – 1985 in La Canaviglia.

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