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IL SALVATAGGIO DEI MONUMENTI LIVORNESI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE


Ho trovato un articolo molto interessante nella Rivista di Livorno, Rassegna di attività municipale a cura del Comune anno 1955, pessimo il suo stato di conservazione. Con pazienza l'ho ripulito dalla polvere e dal fango. Le immagini che ne ho tratto, mostrano gli inclementi segni del tempo.


Scritto da Piero Sanpaolesi (nato a Rimini l'08/01/1904 e morto a Firenze il 10/03/1980) noto storico dell'architettura e restauratore, nato a Rimini l'8 gennaio 1904, morto a Firenze il 10 marzo 1980. Laureatosi in ingegneria a Pisa nel 1929 e in architettura a Firenze nel 1936, prese servizio nel 1937 presso la Soprintendenza alle belle arti, fondò e diresse l'Istituto di restauro dei monumenti, divenendo poi preside della facoltà.

Poco nota la sua instancabile attività collegata alla salvaguardia dei monumenti di Livorno, Firenze e Pisa, dalla violenza della seconda Guerra Mondiale.
Come lui dice alla fine del suo articolo, con una nota di amarezza:"Pochi ci dettero allora consigli e pareri; sembravamo forse e avremmo potuto essere dei fissati che s'adopravano a vuoto".

Piero Sanpaolesi

Riporto interamente l'articolo, lasciando parlare l'autore, senza ulteriori intromissioni.
"Nonostante che i primi bombardamenti su Livorno fossero cominciati nel maggio del 1943, i lavori di protezione antiarea delle opere d'arte furono da me ripresi ai primi di Luglio, pochi giorni dopo aver assunto la direzione della Soprintendenza di Pisa.
La falsa ma comune opinione che Livorno non possedesse se non pochissime opere d'arte degne di essere prese in considerazione. aveva forse ispirato questa linea di condotta; perciò, oltre a tre casse contenenti i più preziosi arredi sacri della Cattedrale, solo i Quattro Mori erano stati calati nel Cisternino asciutto del Pian di Rota, lasciando però a posto la figura di Ferdinando I, mentre il Comune per suo conto aveva pensato a sfollare alla Valle Benedetta le più preziose raccolte della Biblioteca Labronica, e poche altre opere di pittura erano a Calci. Se fosse andata distrutta, come più volte rischiò di andare, la statua di Ferdinando I con relativo basamento, come avremmo potuto ricollocare i Quattro Mori? Il fatto è che non si credeva a simili possibilità e ci si fidava della buona stella. 

Le visite compiute per accertare de visu cosa veramente valeva la pena di essere salvato e formulare tutto il progetto di rimozione, prevedendo i mezzi di smontaggio e di trasporto e attrezzando i rifugi, fu compiuto nel burrascoso mese di luglio del 1943, insieme all'analogo lavoro che si svolgeva per Pisa, Lucca e Massa Carrara. Le ricognizioni furono fatte col pronto ausilio e la collaborazione dell'Ufficio Belle Arti del Comune, allora diretto dal Prof. Mostardi, e accettarono, come era prevedibile, l'esistenza di un ingente patrimonio da proteggere in vario modo. Furono così trasportate nei vari rifugi a Calci e a Firenze tutte le statue, i dipinti, gli arredi e fino i libri della Chiesa della Madonna, dei greci Uniti, degli Armeni, di S. Ferdinando, di S. Jacopo in Acquaviva, del Soccorso e tutto quanto altro sembrò meritare qualche attenzione, come il Giovanni Nepomuceno del ponte di Via della Madonna, che non ha che un valore storico ambientali; tutti i dipinti del Seminario e infine l'ingente mole delle opere del Museo, riservando in un secondo tempo la rimozione di quelle che erano più difficili da trasportare e da rimuovere per il peso e la collocazione.
Il lavoro si svolgeva febbrilmente e non lasciava tempo, molte volte, di preparare a tavolini i preavvisi alle competenti Autorità e le lettere accompagnatorie dei verbali o la richiesta di intervento degli incaricati degli Enti proprietari per assistere alla rimozione. Così si ebbero dei curiosi episodi della denuncia del furto della statua del Fattori, che sforacchiata e rintronata da qualche scoppio vicino, stava tanto in bilico sul suo piedistallo che non fu difficile agli operai della Soprintendenza accostare un autocarro, e sollevata adagiarla sopra per portarla a Pisa, operazione che non richiese più di cinque minuti.
Così furono rimosse faticosamente le gigantesche tele del soffitto del Duomo e quelle degli altari. Non si potevano avere che rudimentali mezzi d'opera, e le pesantissime pitture (tele inchiodate su grossi tavoloni connessi solidamente fra loro) furono calate con acrobatiche operazioni a mezzo di taglie e piccoli paranchi, sospesi a lunghe funi, che in altri tempi forse avremmo rifiutate. Abilissimi e coraggiosi operai, che ad un certo momento si improvvisarono anche restauratori, sezionarono le tele in parti per trasportarle, e valendosi di un lento autocarro a carbonella le depositarono a Calci.
Non posso dimenticare qui l'ultima giornata di sgombero del Museo di Piazza Guerrazzi, una grigia giornata di gennaio 1944, il 27. Si sentivano in aria fra le nubi grigie i soliti ronzii sospetti, e ogni tanto qualche allarme si alternava col segnale di cessato allarme e faceva stare all'erta. La città era vuota, e si sentivano i passi di uomini che non si vedevano. La via Grande aveva solo un bar aperto vicino alla vecchia Questura. I clienti c'erano: erano soldati tedeschi, ma non c'era il barista; tutto si svolgeva senza che vi fosse apparenza di saccheggio. Ognuno andava agli scaffali, ancora pieni di bottiglie, e si mesceva, credo sotto il controllo di qualche poliziotto militare, secondo le sue preferenze. Il Bar aveva, mi pare, lo sporto esterno tinto di verde veronese, ed era assai riconoscibile fin da lontano anche nella grigia luce di quel gennaio.
Il Costagliola stava chiudendo le ultime casse, quando io arrivai. Nelle sale lunghe e scure di Piazza Guerrazzi non c'erano più dipinti a macchiare le pareti. Ero la con due tedeschi il prof. Heydenreich e il prof. Siebenhuner, che ci avevano fatto rinnovare in quel giorno il permesso di ingresso nella cosiddetta "zona nera". Finito il carico, si fece  un ultimo giro e ci fermammo davanti alla tela degli "Esuli di Siena" del Pollastrini, così lunga, così grande, così pesante che con tutta la buona volontà nostra, non era stato possibile rimuoverla.
Bozzetto del Pollastrini "Gli esuli di Siena"

 La lasciammo lì vittima di un evento in qualche modo paragonabile a quello che vi aveva rappresentato il pittore. Se lo avessimo ritrovato salvo a guerra passata, ci sarebbe stata forse una certa speranza anche per noi. Ma qualche giorno dopo il Museo e la Biblioteca Labronica, ancora in parte là, e con essi gli "Esuli di Siena" furono travolti da uno dei tanti bombardamenti.
Ci dovemmo preoccupare in quel tempo per lo statuone di Ferdinando, rimasto solo davanti alla Darsena, piena di natanti affondati, dopo che i Quattro Mori erano stati portati a Pian di Rota, e poi di lì a Poggio a Caiano, dove arrivarono il 22 di gennaio sera, fra la nebbia più fitta.
 A Pian di Rota c'erano molti carri armati, e la cosa c'era sembrata pericolosa. Poi il fatto si ripeté anche a Poggio a Caiano, ma non successe nulla per fortuna. Per muovere il gran marmo del Francavilla da quel luogo pericoloso occorrevano mezzi adatti e sbrigativi. Già alcuni colpi li aveva avuti in pieno, e uno gli aveva portato via il naso. Si trattava di rimuovere un blocco di cinquanta o sessanta quintali di peso che per di più mostrava anche una minacciosa fenditura alla base. Avevo fatto, è vero, ma non invidiabile esperienza in proposito, giacché tra il settembre del '42 e il luglio del '43, quasi da solo, avevo diretto i lavori di remozione di tutti i monumenti fiorentini del Perseo, alla porta del Battistero, alle statue di Orsammichele, ai monumenti equestri delle piazze fiorentine, ai marmi di Michelagelo di S. Lorenzo, alle robbiane dell'Annunziata di S. Croce e un numero imprecisato di altri pezzi che sono poi stati a guerra finita ricollocati con tanta festa; ma a Firenze non s'aveva il rischio continuo di un bombardamento ogni ora, e c'erano i mezzi e le maestranze allenate a quei lavori. A Livorno mancava tutto.
Il legname per tirare su l'alto castello c'era sotto le gradinate dello Stadio, ma un maresciallo di marina tedesco non ce lo volle dare, e ci spedì con minacciosi urlacci a prenderlo a Piombino. Ma non avevano evidentemente i mezzi per trasportarlo e non ne facemmo di nulla. Io non so dire precisamente come fece allora l'impresa Conforti a mettere insieme il legno di misura e quantità adatta. Il fatto è che il castello fu costruito solido e sicuro; quando però si andò per usarlo non si trovava paranco adatto, e si dovette chiederne uno alla Valdarno un ottimo, capace di sostenere da solo il gigante appeso al suo gancio, per poi lasciarlo scorrere lentamente sullo scivolo di tavole fino al grosso carro gommato.



Fu difficile averlo quel paranco, perché serviva per smontare le grosse macchine della Centrale elettrica, che i tedeschi spedivano al Nord, imballandole con meticolosa, quasi affettuosa cura.

Infine lo avemmo, e il gigante smosso dalla base l'11 di febbraio scivolò agevolmente sul pianale il 12, e in due giorni di viaggio, il 15 e il 16, sostando una notte a Navacchio, trainato da un allegro terzetto di muli e cavalli per le tranquille stradette del pian di Pisa e per Caprona, giunse fino a Calci. Ma ci vollero quasi due mesi per questa operazione e per condurre in salvo noi e Ferdinando II.

Intanto avevo visitato la chiesa di S. Ferdinando dove il campanile crollando aveva travolto una parte della Chiesa. Non si poté fare altro che recuperare quanto non era stato saccheggiato e remuovere tutte le sculture e gli altari, che poi vi abbiamo rimesso a restauri finiti dopo la guerra. Anche questa sculture del Baratta finirono con tante altre nascoste in una cisterna asciutta alla Certosa dove stettero al sicuro per quasi due anni.
Altra operazione piena di emozioni fu il recupero delle casse di scritti e manoscritti preziosi che il Comune aveva rifugiato nella scuola elementare di Valle Benedetta, insieme ad un certo numero di dipinti del museo. In tutto, mi pare, erano una trentina di casse affidate alla sorveglianza di una maestra. Un reparto di militati tedeschi un giorno occupò la scuola e fu necessario correre a rimuovere le casse. Ci andammo con un autocarro con rimorchio e l'andata fu agevole. Io scortavo l'autocarro con l'automobile. Erano con me il Costagliola, mi sembra, l'architetto Aussant. Fummo accolti alla scuola con spari di petardi e bombette a mano lanciate nei prati come castagnole festose. In poche ore il carico fu completo. Piovigginava, e chi conosce quei luoghi può immaginare come era sdrucciolevole la strada. L'autocarro carico di così leggere ma preziosissime e voluminose cose (c'erano soprattutto i carteggi del Guerrazzi e i manoscritti del Foscolo, fra le carte, e piccole ma deliziose tavolette dei macchiaioli accuratamente incassate) s'avviò fiducioso lungo la ripida discesa alberata che dalla scuola conduce diritto diritto alla porta della Chiesa. Ma fosse la fretta di levarsi dagli spari di quei petardi ammonitori che ora alcuni soldati avevano ripreso a lanciare sui prati, fosse un po' di stanchezza del  conducente, l'autocarro prese un abbrivio eccessivo e ormai i freni sarebbero stati più di pericolo che d'aiuto; lo vedemmo scendere sempre più velocemente e sempre più di traverso e saltellante che quasi pareva ormai di vedere schiantare gli alberi nell'urto e tutto il carico sfasciarsi per la scesa, e l'acqua, che veniva giù sempre tranquillamente, guastar tutto, si che forse sembrava che sarebbe stato meglio aver rischiato ancora qualche petardo piuttosto che buttarsi subito a quel modo pel rompicollo sdrucciolevole. Ma i duecento metri di discesa finirono prima che succedesse il danno e, sul piazzale della Chiesa ormai in piano, i freni tornarono subito utili, e si dovette solo riassestare il carico che si era un po' disordinato. Fummo presto a Calci, dove le carte stettero insieme a quelle dell'Archivio di Stato di Livorno fino al 1948, quando una disgraziata e imprevedibile alluvione ne bagnò gran parte. E fu fortuna che poi si potessero inviare all'Istituto di Patologia del Libro e restaurare e ricomporre. Ma intanto queste vicende ci avevano condotto alla fine dello sgombero delle opere d'arte di Livorno verso la fine di Aprile, dopo che nel Marzo erano state tolte le tele del soffitto del Duomo, negli stessi giorni avevamo rimosso anche le cose del Museo Archeologico di Castiglioncello, quello che il Melani chiamava il museo d'estate.
Al 19 maggio fu colpita gravemente la Cattedrale. Era quasi tutto caduto 8il soffitto del Cantagallina, ma pareva che dovesse essere non più di tanto danneggiata.
Purtroppo non fu così, e insieme alla Cattedrale, i Portici della Piazza, e tratti fondamentali del volto di Livorno furono cancellati. Il 24 maggio trovo annotato nel mio giornale: "Le opere di protezione proseguono, ma sono pressoché alla fine. Le remozioni da Pisa, le ultime, sono quasi compiute. Si stanno collocando nei ricoveri di Calci quelle opere che non si possono ormai portare altrove, dato il rischio di compiere viaggi con autocarri sulle strade minate e bombardate".
Da ultimo crollò il campanile sotto un bombardamento. Per noi la grossa avventura sembrava finita. Tutto questo si racconta con quel distacco delle cose che sono andate bene, appunto perché siamo ancora qui a raccontarle. Ma poteva benissimo succedere che fosse qualche altro a raccontarvele ora, e veramente me ne sarebbe dispiaciuto.
Tutto questo lavoro calmo, senza soste, e ordinato, dette i frutti che si volevano.
Nulla andò perduto e quasi tutto è stato restituito dopo i restauri. Con noi durante le reimozioni ci furono il prof. Mostardi, il Costagliola, gli operai delle imprese civili tedeschi del Kunstschutz e pochi altri.
Pochi ci dettero allora consigli e pareri; sembravamo forse e avremmo potuto essere dei fissati che s'adopravano a vuoto.
Alle ricostruzioni e ricollocazioni siamo stati invece una simpatica folla prodiga di consigli e di rimbrotti reciproci, lieta però che ci fosse da darsi da fare senza correre rischi".
Piero Sanpaolesi, Rivista di Livorno,  Rassegna di attività municipale a cura del Comune anno 1955, pagg. 62-68



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