venerdì 26 febbraio 2016

Vivere a Livorno... malvolentieri


All'interno di un libro di Francesco Pera, "Biografie livornesi", pubblicato  nel 1867 da Francesco Vigo Editore,  ho trovato un'interessante pagina.
Il fine del suo scritto era quello di far memoria di tutti gli uomini illustri che avevano avuto i natali a Livorno o che vi avessero, semplicemente, soggiornato.
Riporta uno scritto di Pietro Orsilago, console pisano, vissuto nel sec. XVI e figlio di Maestro Gabriello. Illustre accademico fiorentino,  studiò filosofia, divenne non solo medico, ma anche letterato.

Il Pera ci riferisce che: "Il Negri nella Storia degli scrittori fiorentini dice chc l'" Orsilago , laureato nell' uno e nell' altro diritto fu carissimo al Granduca Cosimo Primo, e in nome di lui presiedè a varj Comuni dello Stato. Personaggio di molto sapere si meritò il principato dell'Accademia Fiorentina, e l'onorò più volte con le sue lezioni sul Petrarca e con bellissime rime impresse poi in Venezia nel 1627. Egli d'umore lieto e vivace, fu mandato da Firenze Commissario a Livorno verso la metà del secolo decimosesto, allorchè questa terra usciva appena dalle misere condizioni di castello per assumere . il nome di piccola e nascente città; e non è meraviglia che dopo quattro anni di soggiorno il povero poeta memore della sua bella Firenze, disgustato dallo squallore, dalla solitudine, dal clima, dai rozzi e malvagi costumi degli abitanti, desse poetico sfogo al suo affanno in un Capitolo diretto al Vescovo De' Marzi perchè s'interponesse appo il Duca a favor suo".
L'intercessione scritta dall'Orsilago era stata riportata all'interno di uno scritto di Francesco Doni, intitolato Il Libro dei Marmi.
Questo il componimento:


SOPRA IL BUON ESSERE DI LIVORNO.
Al Vescovo De' Marzi.
Monsignor mio, se voi sapeste bene
L' affezion ch' io vi porto quanta sia ,
Avereste pieta delle mie pene.
E con trovar qualche coperta via
Mi trarreste da l' aer di Livorno ,
Letto di febri e nido di moria.
Potrei pur ancor io starvi d' intorno ,
E servir nella corte il signor Duca,
E non star qui come un bel perdigiorno.
Deh cavatemi fuor di questa buca,
Di cui m' ha il tanfo in tal modo conquiso
Che ho fatto proprio un volto di bezuca.
E quel che me da me stesso ha diviso
È, Monsignor, veder che in questo loco
Non c'e viso, che viso abbia di viso.
Per questo mi sto in casa intorno al foco»
Ora a questo scrivendo et ora a quello
Le mie disgrazie, e di fortuna il gioco.
Che m'ha condotto in questo Mongibello.
Che manda fuor più velenoso odore.
Che di cloaca o puzzolente avello.
(ìli è il vangel quel che io dico, Monsignore.
E chi qual voi non lo- credessi, vegni
A starci , et uscirà forai d' errore.
Gli uomin qui si fan verdi, gialli e pregni.
E chiamar! questo mal la livornese,
Che guasta i corpi e molto più gl' ingegni..
S'Ippocrate, Avicenna, e '1 Pergamese,
Com'io, fosser qui stati a medicare.
Alien forsi imparato alle lor spese.
Mosè ci fu ; ma quando vidde il mare ,
Fuggissi, come nel Burchiello e scritto.
Lassandoci una legge singulare ;
Qual' e, che, s' alcun fa qualche delitto
Per cui debba alla morte esser dannato.
Qua vuol si mandi per maggior conflitto.
Onde ogni ladroncello e scelerato,
Senza altre forche ne tagliar di testa,
Qua da varie giustizie è confinato.
O Fiorentini miei, non fate festa
D' essere eletti a regger questo perno ,
Perchè venite a morte manifesta.
Sia di state , d' autunno , o sia di verno .
Nulla val ; che questo aer 1' alma invola ,
Come fosse una bolgia dell'Inferno.
Per me s' i' esco d' esto purgatoro,
Fo voto d' ire a Roma 1' anno santo,
E farmi dir le messe di Gregoro.
Del che gli uomini e Dio pregato ho tanto.
Ch'ho speranza d' uscirne in tempo corto,
Ed altrove gioir, quanto ho qui pianto.
Al Duca ho scritto che quattro anni ho scorto
La vecchia e nuova torre e '1 gran fanale.
La fortezza, la terra, e '1 molo, e '1 porto,
E che non lassi capitar qui male
Un che '1 serve di cor, l' ama e l' adora :
Però, se Dio vi faccia cardinale,
Pregatel che di qui mi cavi fuora.



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