ULTIMA PREGHIERA
Anima mia, fa' in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno,
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un'altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un'altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all'altro la via,
da Cors'Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d'erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all'erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mòrmorale all'orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch'io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D'altro non ti richiedo.
Poi, va' pure in congedo
Anima mia, fa' in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno,
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un'altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un'altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all'altro la via,
da Cors'Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d'erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all'erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mòrmorale all'orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch'io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D'altro non ti richiedo.
Poi, va' pure in congedo
Giorgio Caproni, nostro amato concittadino, è
nato a Livorno il 7 gennaio del 1912. Figlio del ragioniere Attilio Caproni e
della sarta Anna Picchi, chiamata teneramente Annina. Aveva poco più di dieci
anni quando, nel marzo del 1922, si trasferì con la sua famiglia a Genova. Qui
compie i suoi studi e, grazie alla sua grande passione per i classici e la
filosofia, nel 1935 consegue il diploma magistrale. Contemporaneamente studia
il violino.
Nel 1939 si trasferisce a Roma, con sua
moglie Rina. Qui farà il maestro fino alla sua chiamata alle armi per la
seconda guerra mondiale. L’otto settembre
si da “alla macchia” e combatte come
partigiano. Finita la guerra ritorna a Roma dove continuerà a fare il maestro
nelle scuole elementari, fino al 1973. Con la moglie Rina e i suoi figli,
conduceva uno stile di vita appartato e lontano dai salotti letterari del
tempo. Il suo lavoro di traduttore ha alleviato ben poco le ristrettezze
economiche, con cui si trovava a dover fare i conti. Fra le sue egregie opere di traduzione
ricordiamo il Tempo ritrovato di
Marcel Proust, Poesie e prosa di René
Char, La mano mozza di Blaise Cendrars,
Il silenzio di Genova e altre poesie
di André Frénaud, Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, Tutto il teatro di Jean Genet. Collaborò
a numerose riviste come l'Unità, Mondo operaio, Avanti!, Italia socialista,
Il lavoro nuovo, La fiera letteraria ed altre, con
articoli, racconti e traduzioni.
Il cuore della poesia di Giorgio Caproni è Il seme del piangere uscito nel 1959, edito da Garzanti. Il libro è dedicato alla madre Anna Picchi, Annina. L’intera opera è pervasa dalla madre ragazza del poeta, che correndo in bicicletta e lasciando una scia di cipria, attraversa una Livorno popolare, piena di vento e odori. Siamo ben lungi dall’errore se definiamo questo scritto un apice toccato dalla poesia italiana del Novecento.
articoli, racconti e traduzioni.
Il cuore della poesia di Giorgio Caproni è Il seme del piangere uscito nel 1959, edito da Garzanti. Il libro è dedicato alla madre Anna Picchi, Annina. L’intera opera è pervasa dalla madre ragazza del poeta, che correndo in bicicletta e lasciando una scia di cipria, attraversa una Livorno popolare, piena di vento e odori. Siamo ben lungi dall’errore se definiamo questo scritto un apice toccato dalla poesia italiana del Novecento.
Il poeta si è spento a Roma il 22 gennaio 1990. Mi
piace immaginarlo ancora vivo, qui a Livorno che vola con Annina in bicicletta
per le vie della Venezia.
“Se non
dovessi tornare,
sappiate che
non sono mai partito.
Il mio
viaggiare
è stato
tutto un restare
qua, dove
non fui mai”.
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