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La chiesa degli Armeni a Livorno


Ho trovato una ricca e interessante testimonianza di Giuseppe Piombanti, del 1873, sulla chiesa degli Armeni.
Oggi ci appare in via della Madonna la sua fastosa facciata, che si apre su un ricordo svanito nel nulla e portato via dal furore delle bombe.


In conseguenza dei privilegi concessi a Livorno da Ferdinando I, con la legge del 10 giugno 1593, anche gli armeni cattolici, da lui espressamente invitati, vi accorsero. I quali essendo privi di Chiesa propria ed usando quella dei Latini, il 7 Giugno 1683 s'adunarono in numero di trentaquattro e decisero, ricchi mercanti com'erano, di erigerne una a proprie spese, a forma di croce latina, edificando nei quattro angoli della medesima altrettante case e per dote sua, e per abitazione d'un loro sacerdote, e per ospizio dei pellegrini o poveri nazionali, che si trovassero ad aver bisogno di sostentamento o d'alloggio. Onde acquistarono dal governo, il 19 Febbraio 1692, l'orto che adoperavano i Francescani, per una somma equivalente a lire italiane 26512.
A fine poi di provvedere a tutte le spese occorrenti, l' 8 Marzo 1697 , fecero tra loro una convenzione ,approvata da Cosimo III, in vigor della quale ogni mercante armeno dovesse pagare al soprintendente della fabbrica una tassa , per ogni balla di merci che qui trasportasse o di qui all'estero.
Dovendo la Chiesa essere ufiziata da sacerdoti armeni ed in armeno rito, i nazionali, superate molte difficoltà ed assistiti dal medesimo Cosimo III , ottennero anche il permesso dalla Congregazione di Propaganda Fide, l'8 Marzo 1701, a condizione che fosse sempre sotto la giurisdizione del vescovo locale, e la Congregazione stessa dovesse mandare il curato. Il 23 Aprile 1701 pose con molta festa la prima sua pietra il vescovo Azaria di Canib, patriarca di Sis in Armenia; il disegno lo aveva fatto il principe ereditario Ferdinando, figlio di Cosimo III, che Giovanni Del Fantasia mise in esecuzione. Il barone Diodato Agà di Mathus armeno, come sopraintendente alla fabbrica, faceva le necessarie spese, proponendosi di riaverle colle tasse che gli Armeni pagavano sulle mercanzie.
Sventuratamente uno scelleratissimo servo di questo splendido signore, scoperto infedele nell'amministrazione e perciò licenziato, a tradimento lo uccise nella Chiesa stessa, il 13 Settembre 1709”.
Lo sventurato barone fu sepolto al centro della chiesa e in sacrestia si trovava un suo ritratto.
Quindi venne chiusa la Chiesa, quasi del tutto finita, perché gli eredi di lui pretendevano d'averne la proprietà, a cagione delle grandi somme dal barone pagate; ma l'arcivescovo di Pisa, cui in fine rimisero la lite, il 30 Dicembre 1713 decise che essa apparteneva alla intiera nazione armena, e che gli eredi avevano solo il diritto ad una restituzione di pezze 20000.
Così, dopo più di quattro anni, aprirono la Chiesa al pubblico il 1 Gennaio 1714. Tutti i lasciti fatti alla medesima dagli Armeni, di qualunque genere e per qualunque scopo si fossero, furon sempre amministrati da una congregazione di nazionali,secondo l' uso delle Chiese d'oriente, e formano per ciò un patrimonio di esclusiva loro pertinenza. Nel 1773, invece di ricevere un missionario armeno da Roma, la nazione ebbe a curato un religioso del monastero di S. Antonio abate del Monte Libano; poi, per disposizione di Pietro Leopoldo del 25 Settembre 1785, essa ottenne il permesso, quando abbisogna del parroco, di presentare una terna al governo (sui monaci del Monte Libano), il quale, secondo le informazioni del vescovo locale, sceglie il soggetto. La cura armena, come la greca, non ha giurisdizione territoriale, ma le appartengono tutti i nazionali che sono nella diocesi.
Il tempio, non molto grande, è messo a marmi ed a scagliuola ; una ben intesa e svelta cupola lo sormonta, che esternamente non si può osservare a cagione delle circostanti case; la sua marmorea facciata, munita di portico, ha le statue della carità e della fede di Andrea Vaccà, ed in un ovale l'immagine di S. Gregorio vescovo e martire, soprannominato l'Illuminatore ( cui è dedicata la Chiesa ), al quale la tradizione degli Armeni attribuisce la conversione della maggior parte del loro paese al principio del secolo IV.
Dal 1843 al 1845 fu tutto bellamente restaurato, come dice la seguente iscrizione: Questo tempio dalla pietà dei cattolici Armeni sacrato al nome del santo, che primo irradiò coll'evangelio le regioni natie , offeso dai guasti del tempo, rivestì forme più maestose, per cura dei rappresentanti nazionali Gregorio Alessandri governatore, Giuseppe Yenghidunia, Salvatore Scerbetian, Adiodato Sarpetros, Taddeo Chianaghian, Giorgio Zaccaria.
Sulla porta internamente è il busto dello stesso S. Gregorio colle parole: Accedite ad eum et illuminamini.
Quindi si ammirano due grandi e buoni quadri di Giuseppe Bottani; quello a destra rappresenta i quattro principali dottori della chiesa armena, tra i quali S. Mesrobio inventore dell' armeno alfabeto, con in petto un sole contenente le prime sue lettere; quello a sinistra esprime S. Bartolommeo Apostolo che predica Gesù Cristo all'idolatra Astiage re dell'Armenia.
Nelle cappelle sono due simili altari; per quello a manca Alessandro Gherardini colorì l'assunzione di Maria, per l'altro Francesco Riviera dipinse S. Gregorio vescovo e martire che battezza il re dell' Armenia Teridate con alcuni della sua gente; nell'attigua cappelletta è una copia dell'immagine della Madonna della Neve, esistente in Roma.
Mons. Sergio Sarafoglù, arcivescovo di Cesarea in Cappadocia, fece, nel 1778, l'altar maggiore, al quale si va per due laterali gradinate secondo la costumanza antica, come da iscrizione ivi esistente; egli benedì la Chiesa e poscia vi fu sepolto. La tribuna contiene un antico crocifisso dipinto sul muro, qui trasportato dalla distrutta Chiesa di S. Omobono il 23 Marzo 1786.
Vedonsi ai lati due statue d'Emilio Demi; rappresenta l' una S. Giovanni Battista in atto di predicare, l' altra S. Maria Maddalena piangente. Lo spazio interposto fra i due balaustri, dinanzi all'altare, serve di coro nelle Chiese armene.
Giuseppe Baldini colorì, nella parte superiore della tribuna, il Padre Eterno, e nei peducci della cupola i quattro evangelisti; la cupola stessa e le volte son pitturate a cassettoni, con molta naturalezza, dai fratelli Giovanni e Giacomo Medici di Milano".


Subito dopo Piombanti descrive le vie che si incontravano uscendo dalla chiesa e la statua di San Giovanni Nepomuceno.




Volgendo a destra, nell'uscir di Chiesa, prima di giungere al ponte S. Giovanni Nepomuceno, s'incontra la Via degli scali di detto santo che va sino all'arco del teatro degli Avvalorati; nel resto ha nome Via dei Lavatoi, perché ad essi conduce ; la quale strada, fino all'incontro di Via dell'Angiolo, si chiamò Via della Pera, da un'osteria, e prima Via de' magazzini delle Mummie; dalla parte opposta è la Via S. Giovanni Nepomuceno (ov' è l' ufizio dei Pompieri ), la quale ebbe nome Via dei Gatti.
La statua del protettore della Boemia, situata sul ponte, si può considerare come una memoria della venuta in Livorno del granduca Francesco II, della sua con sorte Maria Teresa e delle truppe imperiali, essendo stata fatta nel 1739 a spese degli ufficiali delle me desime, come si rileva dalla sottoposta iscrizione:

D.O.M D. Joanni Nepomuceno Pragae Canonico presbytero, sanctìtatis martiriique laurea illustri, sacramenti poenitentiae arcani assertori conciantissimo, a maximis Pontific Benediclo XIII et Clemente Xll summis affecto honoribus, quod eum alter sanctis martyrib. albo adscripsit, alter illius in Etruria cultum praecepit. Carolo VI Romanor, imperatore semper augusto, inviato, pio, felice, et Maria Teresa austriaca magna Elrur. duce efflagitantibus, caesareae militiae duces ordinesque, austriacae domus pietatis aemuli, perenne hoc obsequii monumentum
D.D.D. Anno aerae christianae 1739.







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